Dalle categorie diagnostiche ad una lettura sistemica dei problemi nei contesti scolastici
Per poter giustificare il passaggio dalla classificazione diagnostica di tipo descrittivo , che ad esempio nel campo della salute mentale è rappresentata dal Manuale Diagnostico dei disordini mentali ( il DSM-V, accettato in campo internazionale come linguaggio convenzionale e comune dei clinici e ricercatori), alla classificazione intesa come mappa operativa ,cioè come modo di classificare il problema per poterlo inserire all’interno di una categoria di problemi e quindi cercare facilmente la strategia per la soluzione che meglio calzi a quella categoria, ho bisogno di fare una breve premessa sull’approccio costruttivista .
Watzlawick, Bateson, Jackson, Weakland, Haley e altri membri del Mental Research Instutute di Palo Alto furono tra i primi a spostare l’attenzione dall’intrapsichico all’interazione fra individui fondando in campo clinico l’approccio psicologico sistemico.
Secondo questo modello il disturbo è determinato dall’interazione tra individui e da come l’individuo percepisce la realtà (sistema percettivo-reattivo). L’intervento terapeutico ad esempio, deve determinare lo spostamento del punto di osservazione del paziente verso una posizione non rigida e più funzionale che produca un cambiamento nel modo di percepire se stesso, gli altri ed il mondo; se uno dei tre livelli di relazione non funziona infatti, inficia anche gli altri.
Questo modello, anche se è nato e si è evoluto in campo clinico, è un modello non clinico, non normativo; non si basa su un concetto di normalità e di devianza, ma su una visione dei problemi umani come il prodotto dell’interazione fra soggetto e realtà. Questo significa che ogni realtà può essere funzionale o disfunzionale a seconda della prospettiva che si assume.
La teoria dei sistemi sembra poter dare risposte adeguate all’esigenza di comprendere realtà più complesse dell’individuo. In questo ambito viene sottolineata l’importanza del “concetto di contesto che, in quanto tale, definisce-induce-crea un determinato comportamento” (Togliatti M.M., Telfener U.-a cura di- “Dall’individuo al sistema”,1991).
E’ intorno alla metà degli anni settanta che compaiono i primi contributi ad una lettura sistemica del contesto scolastico.
L’esperienza delle classi differenziali intanto, ammoniva che la diagnosi, cioè una valutazione in chiave psicopatologica del bambino con problemi scolastici, poteva essere uno strumento estremamente pericoloso. “Fornendo, come spesso accade, solo diagnosi e mai cure, gli operatori sociali passano al bambino e agli altri un messaggio gravido di conseguenze. Invalidando sistematicamente i comportamenti di un bambino e giustificando la sua esclusione, (la diagnosi) aumenta l’incompetenza dichiarata dell’individuo; essa finisce con l’ampliare così, dando loro una giustificazione ed un nome scientifici, i livelli del suo insuccesso….L’attività diagnostica assume da questo punto di vista, un rilievo centrale nella creazione della malattia (Cancrini,1988).
Per evitare, sulla base di semplici letture psicologiche, di fornire solo diagnosi ed etichette costruttrici di problemi , si inizia ad analizzare “il caso segnalato” soprattutto in quanto sintomo di comunicazioni disfunzionali fra gli insegnanti. Da questa prospettiva la classe scolastica e la scuola nel suo insieme, vengono lette come un sistema interattivo governato da regole rigidamente omeostatiche.
Il chiedersi come reagisce la classe, come intervengono gli insegnanti e le altre componenti scolastiche ed extrascolastiche, come comunicano la scuola e la famiglia di fronte al bambino con difficoltà, non significa non considerare o non trattare pedagogicamente i disturbi dell’apprendimento o l’handicap.
L’insegnante dovrebbe quindi conoscere anche i fenomeni che regolano la vita in un gruppo, imparare a decodificare il significato di ciò che avviene e a collaborare con le persone coinvolte nell’intervento educativo.
La differenza fondamentale fra questo approccio e quelli precedenti, dal punto di vista del modello, è quella di basare lo studio e l’intervento sul “come” un problema persiste, sul “come” funziona, e non sul “perché” un problema si sia venuto a formare sulla base di causalità che risiedono nel passato ( cause intrapsichiche, alterazioni biologiche, ...).
Quello che interessa è “il cosa” possa essere migliorato e risolto e soprattutto “il come” farlo; questo rompendo le sequenze che lo fanno persistere, il circolo vizioso che alimenta il problema (sistema interattivo rigido), più semplicemente tutto ciò che si fa per gestire una difficoltà e che , se non funziona, diventa il problema stesso ( le tentate soluzioni).
Nel 1969, il Brief Therapy Center, che fu fondato nel gennaio del 67 come uno dei progetti di lavoro del Mental Resarch Institute, aveva intrapreso una ricerca volta ad indagare il fenomeno del cambiamento spontaneo o terapeuticamente indotto ( Weakland, Fisch, Watzlawick, Bodin 1974, p.151); dai principi generali sulla formazione e sulla soluzione dei problemi, derivanti da questo studio, fu possibile elaborare un nuovo, semplice ed efficace tipo d’intervento.
La terapia sistemico-strategica del gruppo di Palo Alto fu solo uno dei modelli fra quelli derivati da tale ricerca; come gli altri, che a seconda degli aspetti teorici e pratici sottolineati si sono sviluppati in modo differenziato, è una terapia breve.
Nella cultura psicopedagogica e nella scuola in generale persiste a volte l’idea che il cambiamento sia qualcosa di difficile da raggiungere, che richieda teorizzazioni sulle cause e le origini, cioè teorie e spiegazioni del perché, senza però con queste riuscire a risolvere i problemi che incontrano gli insegnanti .
Una nuova ricerca in Italia, portata avanti dal Centro di Terapia Strategica di Arezzo e dai suoi collaboratori a partire dagli anni 90, ha condotto ad elaborare una serie di “protocolli”d’intervento che hanno, rifacendosi ai tipi logici di Bertrand Russel, a livello di struttura una sequenza pianificata di procedure tecniche, a livello di relazione con l’oggetto dell’intervento, la proprietà di adattarsi e correggersi sulla base dell’evolversi dell’intervento (Fiorenza-Nardone 1995 “l’intervento strategico nei contesti educativi”) (1).
Si tratta di un modello che vuole fornire indicazioni operative (dire come e cosa fare per particolari categorie di problemi) che introducano piccoli e apparentemente insignificanti cambiamenti per portare il sistema a cambiamenti più grandi. Come diceva Lewin si può conoscere la realtà intervenendo su di essa, si studiano le cose cambiandole e vedendone gli effetti. Siamo molto lontani dal paradigma che considera il cambiamento come un processo lungo, tortuoso e difficile da instaurare.
Dal momento che l’attenzione viene posta su ciò che accade “qui ed ora” nella realtà relazionale, occorre un insegnante flessibile e sensibile, non ancorato a ciò che deve essere trasmesso, ma ”protagonista della trama di conoscenze che costruisce insieme ai suoi allievi”(Raffagnino, Occhini, 2000 “Il corpo e l’altro”).
Il bambino con difficoltà non è il solo ad avere problemi nel contesto scolastico; quindi è importante valutare, oltre che come trattare il caso dal punto di vista pedagogico e riabilitativo, in che misura altri fattori concorrono alla genesi o al complicarsi del disturbo.”Soprattutto dovremo chiederci come reagisce la classe, come intervengono l’insegnante ed altre componenti scolastiche, come comunicano la scuola e la famiglia sul problema”(Angelo C., 1977) (2).
Chi lavora con i problemi scolastici dovrebbe collocarsi tra la scuola e la famiglia e lavorare per costruire confini chiari tra i due “sistemi”che permettano al bambino di muoversi liberamente tra il suo mondo familiare e quello scolastico evitando i conflitti.
La mediazione e il sostegno della mediazione, tra gli alunni portatori di handicap e la loro famiglia, e la comunità scolastica, oltre che l’aiuto tecnico dell’apprendimento, sono i presupposti di un lavoro per l’integrazione.
La funzione dell’insegnante di sostegno si può collocare oggi su questa prospettiva: conoscere la situazione e le possibilità d’intervento, filtrare le indicazioni di specialisti e colleghi, contribuire responsabilmente, con il proprio lavoro, alla costruzione di un punto d’osservazione, di conseguenza di uno “stile percettivo-reattivo”, più funzionale per i soggetti fragili, cioè il bimbo e la sua famiglia.
L’insegnante di sostegno è infatti figura sempre presente in tutte le operazioni decisionali in merito alla valutazione, pianificazione, realizzazione e controllo dell’intervento.
Sulla base di una diagnosi specialistica e del Profilo dinamico funzionale (3) (che viene rivisto in itinere per verificare gli effetti degli interventi) egli collabora con i genitori dell’alunno, gli operatori dell’ASL e il personale insegnante della scuola, nella fase in cui si devono indicare le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali e affettive dell’alunno per poter individuare le sue difficoltà d’apprendimento legate all’handicap e le sue possibilità di recupero; quest’ ultime tenendo conto delle capacità che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto della persona ( fase a cui segue la stesura del P.E.I).
In seguito , sempre a fianco dei colleghi, valuta il progresso dell’allievo in rapporto alle sue potenzialità e ai livelli d’ apprendimento iniziali (art. 16, L. 5 Febbraio 92, n.104) predisponendo le modalità di verifica, d’esame e di valutazione.
In generale i docenti sanno ( anche la legislatura ne tiene conto) che l’individuo diversamente abile può avere tempi lenti per alcune attività intellettuali e decisamente diversi per altre competenze. L’insegnante di sostegno, che è direttamente a contatto con il bambino con difficoltà, è semmai più sensibile ad individuare l’intervento, in particolare quali sono le attività in cui ha bisogno dell’appoggio: quelle che non è al momento in grado di svolgere o che non potrà mai svolgere (nel caso dei “gravi”), e che quindi non si devono proporre; quelle che può svolgere in tempi lunghi, per cui dobbiamo lasciargli alcune scelte e iniziative personali per renderlo autonomo; quelle che può seguire come gli altri , per cui va guidato ma non direttamente aiutato, per non fargli sentire il peso dell’handicap.
Dal punto di vista didattico e pedagogico la conoscenza della diagnosi e dell’anamnesi dell’alunno possono essere utili per orientare un progetto d’intervento ma assolutamente disfunzionali se non supportate da un’attenta e scrupolosa osservazione del caso, dei problemi che presenta nel contesto classe e delle eccezioni positive.
In questo senso l’esperienza d’insegnamento è costruttiva solo se il docente è un buon osservatore. Poichè il filtro della percezione personale e dei suoi limiti è sempre presente, non deve scordarsi che l’osservazione comprende l’osservatore, che chi osserva non è fuori discussione e che ciò che osserva dipende anche da come lo fa.
Per la riuscita di un intervento è quindi fondamentale il lavoro d’équipe, cioè il continuo confronto fra i colleghi sulle “osservazioni, definite come una pratica e una procedura che consiste nel guardare, vedere, descrivere quello che si presenta ai nostri sensi”( J. Leif, 1974) (4).
Note
(1) La ricerca-intervento a cui ci si riferisce, e che è ancora in corso, si realizza analizzando casi reali: si lavora direttamente su problemi concreti presenti nel gruppo classe, si sperimenta l’efficacia di alcuni interventi e l’inefficacia di altri, si evidenziano e si isolano le categorie di problemi che compaiono con più frequenza e per le quali sono stati elaborati protocolli con sequenze definite di comportamento e comunicazione da applicare.
(2) Tratto da “Dall’individuo al sistema - manuale di psicopatologia relazionale, a cura di Togliatti M.M e Telfener U., 1991.
(3) Si costruisce un profilo dell’allievo tenendo conto delle sue caratteristiche fisiche e psichiche, della sua storia personale, familiare e ambientale, distribuendo le informazioni nei 7 assi (asse 1: affettivo relazionale; asse 2: autonomia; asse 3-4: comunicazionale e linguistico; asse 5: sensoriale percettivo; asse 6: motorio prassico; asse 7: neuropsicologico ).
(4) in “Quel bambino là….”Canevaro A., 1996, La Nuova Italia.
PROF.SSA MALFETTI ANGELITA
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